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La storia dell'olivo


Parlare della storia dell'olivo significa anche misurarsi con complessi processi di condizionamento che la diffusione della pianta ha subito nel corso dei secoli ad opera di una molteplicità di fattori, quali i consumi alimentari, i flussi commerciali, i problemi relativi ai trasporti sulle lunghe distanze, le tecniche colturali, il regime della proprietà fondiaria.

Su questi temi, a tutt'oggi, nonostante negli ultimi decenni gli storici delle campagne medievali abbiano dedicato numerosi studi all'olivicoltura, restano da chiarire diverse questioni. Per richiamarne all'attenzione solo alcune possiamo ricordare che poco si conosce della diffusione degli oliveti in età romana, cosi che rimane difficile valutare in quale misura si verificarono la regressione dell' olivicoltura al momento della crisi agricola del basso impero e la successiva ripresa medievale. Altro aspetto non definito è la circolazione dell'olio, anche se sappiamo che dopo la rivoluzione dei noli marittimi, alla fine del Trecento, 1'abbassamento dei costi di trasporto ne favorì il commercio sulle lunghe distanze, prima ostacolato dall'impiego di recipienti ingombranti e pesanti. Per non parlare poi degli interrogativi con nessi al consumo alimentare dell'olio a livello popolare. In particolare, gli studi di storia dell'alimentazione hanno chiarito che nel medioevo e nell'età moderna esistevano in Italia due aree contrapposte: il Nord, nel quale dominava la cultura dei grassi animali (burro, lardo e strutto), tipica dell'Europa continentale, e il Centro-Sud orientato sul modello alimentare mediterraneo caratterizzato dall'impiego dell'olio.
Resta però da chiarire quando questa divisione si sia affermata. Secondo alcuni studiosi, infatti, l'Italia padana avrebbe abbandonato il modello mediterraneo per avvicinarsi a quello barbarico dei grassi animali nel corso dell'alto medioevo, mentre per altri già nell'antichità la situazione a favore dell'olio era meno netta di quanto si pensi e nei consumi popolari i grassi animali erano diffusi non solo nella zona padana, che esportava a Roma i suoi maiali, ma anche al di sotto dell'Appennino.

Nonostante i nodi irrisolti, nelle linee generali l'evoluzione dell'olivicoltura in Italia e conosciuta. Le prime testimonianze della presenza di olivi coltivati risalgono alla Sicilia e alla Magna Grecia del I millennio a.C., anche se nel resto del bacino mediterraneo la pianta compare prima: nel IV millennio a.C. in Palestina, nel neolitico in Fenicia, in Egitto nella XVILI dinastia (1552-1186 a.C.). La produzione si ritiene che fosse destinata soprattutto agli usi religiosi, visto che solo dall'età del bronzo recente gli impianti per la lavorazione dell'olio divengono numerosi. Comunque, a partire dai secoli VIL-VI a.C., nel Lazio e nell'Etruria appaiono tracce evidenti dell'utilizzazione della pianta a livello alimentare, anche se la frequenza dei ritrovamenti di noccioli nelle indagini archeologiche fa ritenere che fossero consumate soprattutto le olive, mentre l'olio doveva essere utilizzato più per l' illuminazione, la cosmesi e la medicina.

Pur in assenza di dati quantitativi, l'importanza dell'olivicoltura romana è testimoniata dall'attenzione che i trattati di agronomia le dedicano, dilungandosi sulla descrizione delle varietà coltivate (Plinio nel I secolo d.C. ne elenca ben 22) e delle diverse qualità di olive, nonché sulle tecniche di coltivazione e sui sistemi di produzione dell'olio.
Dalle stesse fonti apprendiamo che esistevano diversi tipi di olio, a seconda della stagione di raccolta: oleum acerbum o aestivum, era quello che si ricavava dalla spremitura delle olive cadute in estate, l'oleum omphacium, veniva prodotto con i frutti colti in novembre e dicembre, e il cibarium o maturum o romanicum, si otteneva prolungando la raccolta sino a gennaio-marzo, con un risultato qualitativamente inferiore anche se il prodotto era meno costoso.
Dopo la schiacciatura delle olive, che veniva fatta con la mola olearia fatta girare da un asino, il prodotto veniva messo in cesti (fisci) e poi passato sotto il torchio, una robusta barra pressatrice fermata tra due sostegni e sospinta verso il basso per mezzo di un argano con braccio a leva, nei modelli più avanzati con l'aiuto di una vite per sfruttare più a fondo il prodotto sottoposto a pressione. Ne veniva fuori una miscela piuttosto spessa e per farla diventare più fluida aveva bisogno di essere scaldata; per questo motivo l'olio aveva spesso odore di fumo.

Per l'età imperiale disponiamo di stime sui consumi della città di Roma basate sui ritrovamenti delle anfore olearie nel monte Testaccio: 321.000 anfore per anno, pari a 22.480 tonnellate, per un consumo annuo pro capite di circa 22,5 chilogrammi. D'altronde, nel mondo romano il consumo di olio raggiunse livelli significativi non solo a livello quantitativo; esistevano prodotti differenziati, che andavano incontro ai gusti di tutti i consumatori, dai meno esigenti ai più raffinati, e tra i prodotti di qualità superiore troviamo un olio del Lazio, quello sabino, celebrato dal poeta Orazio, che vantava la qualità delle olive paragonandole a quelle rinomate di Venafro, e apprezzato dal medico dell'Imperatore Marco Aurelio, Galeno, che lo utilizzava come base dei suoi preparati farmaceutici.
L'affermazione del Cristianesimo aprì nuove prospettive al consumo di olio conferendogli un forte valore simbolico, liturgico e sacrale (analogamente a quanto avvenne con la vite e con il vino). L'olio era impiegato sia nella somministrazione di alcuni sacramenti (battesimo, cresima, estrema unzione), sia nell'ordinazione sacerdotale e nella consacrazione dei sovrani; al tempo stesso se ne diffuse sempre di più l'uso per l'illuminazione sacra, dal momento che era preferito (insieme con la cera) agli altri grassi, in particolare a quelli animali, che provocavano fumo e cattivi odori. Per ogni chiesa e per ogni monastero, dunque, divenne indispensabile rifornirsi di olio. così le necessità degli enti religiosi, unite alle difficoltà e agli alti costi i trasporti, favorirono la diffusione dell'olivicoltura, che, compatibilmente con i limiti del clima, raggiunse nel medioevo anche zone dalle quali si è successivamente ritirata, come testimonia la sua presenza a nord delle Alpi, lungo la vallata del Rodano. L'uso liturgico, secondo lo storico dell'alimentazione Montanari, nell'alto medioevo doveva essere la destinazione principale dell'olio; non che l'uso alimentare fosse assente basti pensare alle frequenti donazioni di oliveti a favore di enti ecclesiastici (secoli VILI-X) testimonianza della diffusione dell'olivicoltura anche tra i proprietari laici doveva avere un ruolo marginale, limitato ai ceti abbienti. L'olio era prodotto di lusso, il cui uso conferiva prestigio, mentre nell'alimentazione contadina era comunemente usato come fondo di cottura il grasso di maiale.
La documentazione altomedievale consente di ricostruire una mappa eloquente, sebbene lacunosa, della presenza dell'olivo nelle campagne Italiane.

Nell'Italia del nord uno sviluppo significativo dell'olivicoltura è segnalato in quelle zone, come la Liguria e la Lombardia dei laghi prealpini, che anche i secoli successivi si caratterizzeranno per una decisa vocazione olivicola. Proprio intorno ai laghi troviamo, sin dall'alto medioevo, gli oliveti dei maggiori enti ecclesiastici della Valle Padana, proprietari talora di coltivazioni estese. Possiamo ricordare il monastero di S. Giulia di Brescia, che nel X secolo possedeva presso i laghi di Garda e Iseo numerose piante dalle quale ricavava annualmente 3.700 libbre d'olio (pari a circa 1200-1900 litri), una produzione notevole per quell'età; apprezzabile era anche la resa di olio a pianta (peraltro, quelli degli oliveti gardesani sono tra i pochi dati disponibili per 1'eta medievale), pare a un litro, un litro e mezzo, non lontana da quella conosciuta per l'inizio del Novecento in Toscana: tra 1 kg. e 1,60 kg.
Nelle regioni centrali le fonti segnalano una diffusa presenza dell'olivo dalla Romagna al Lazio, ma si tratta in massima parte di testimonianze relative a piante isolate, inserite di regola all'interno dei vigneti o dei seminativi. Appezzamenti a coltivazione intensiva sono presenti in Toscana (Lucchesia e territorio di Pistoia) e in Sabina, dove tra VILI e IX secolo enti religiose e proprietari laici risultano impegnati ad incrementare le aree destinate all' olivicoltura in vista di una ipotizzabile commercializzazione delle eccedenze. Ma è nel Mezzogiorno che l'olivo trova sin dall'alto medioevo il suo terreno d'elezione, soprattutto in Puglia in Campania e basso Lazio, due regioni nelle quali si concentravano i possessi olivicoli dei grandi monasteri centromeridionali, come Montecassino e S. Vincenzo al Volturno.
Tra XIL e XV secolo l'olivicoltura Italiana conobbe un ulteriore rilevante incremento, in parte sollecitato dall'aumento demografico, in parte stimolato dalla diffusione della piccola proprietà, alla quale si accompagno un nuovo criterio di gestione della terra basato sull'obiettivo dell'autosufficienza. In quei secoli assistiamo ad un cambiamento dell'ordinamento colturale delle campagne e all'affermazione della tendenza alla consociazione tra diverse colture, cosi che se aumentarono gli oliveti specializzati, si diffusero sempre più anche he singole piante di olivo collocate nel parcellario, lungo i bordi degli appezzamenti oppure in consociazione con il vigneto o con il seminativo o con altri alberi da frutta (soprattutto fichi e noccioli).

All'interno di questa tendenza di fondo, gli sviluppi dell'olivicoltura seguirono strade diverse nelle diverse parti d'Italia. Il primato delle regioni del Mezzogiorno non solo non venne soppiantato ma conobbe un nuovo incremento. Già a partire dall'età normanna le testimonianze relative alla diffusione degli olivi divengono sempre pin significative, segnalando presenze non trascurabili nelle campagne campane e calabresi - anche se in queste due regioni l'espansione più forte si registrerà solo nella seconda meta del Cinquecento - e in quelle pugliesi. Qui erano assai rinomati Polio di Bari (importante zona di produzione anche in età romana), che nel secolo XI veniva esportato fino a Costantinopoli, e quelli del Salento e della Capitanata. Nel Trecento, nelle campagne pugliesi, l'olivo si era ormai imposto come uno degli elementi dominanti del paesaggio agrario e la commercializzazione dell'olio raggiungeva i maggiori mercati europei e orientali, come testimonia il traffico delle navi che dai porti di Bari, Brindisi, Giovinazzo, Molfetta e Manfredonia to portavano verso destinazioni lontane: Bruges, Parigi. Londra, Egitto, Costantinopoli, Caffa.

Anche per l'Italia del nord la documentazione segnala un incremento della presenza degli olivi. Oltre alla Liguria e alla zona dei laghi, la loro coltivazione si affermo in Piemonte, nel Veneto e oltre, verso le Alpi, sino a Bolzano, Gorizia, Monfalcone; quando, però, alla fine del medioevo, il commercio dell'olio comincio a muoversi sulle lunghe distanze, l'olivicoltura dell'Italia settentrionale regredì progressivamente concentrandosi nelle zone più adatte (laghi lombardi, colline veronesi, vicentine, padovane e romagnole), dove continuo a svilupparsi ulteriormente.
Quanto all'Italia centrale, si è già detto come l'olivo costituisse una presenza familiare, ma una sua significativa espansione si verificò solo alla fine del medioevo e nella prima età moderna. Cosi accadde nelle Marche, la cui produzione riforniva Venezia, e in Umbria, dove l'olivicoltura nel Quattrocento alimentava una corrente di esportazione verso i mercati dell'Appennino centrale. Nella stessa Toscana, le cui campagne oggi sono marcatamente connotate da estesi oliveti, gli studi di storia agraria hanno evidenziato che ancora nel XV secolo, nonostante l'affermazione della mezzadria poderale e della coltura promiscua, l'olivo era ben lontano dal conoscere quella diffusione che avrebbe avuto solo agli inizi dell'età moderna.

Nè appare diversa la situazione del Lazio. Qui tracce significative di un incremento della coltura si ritrovano nella documentazione solo a partire dal Quattrocento, epoca nella quale l'olivo si spinse anche al di sopra della fascia ottimale dei 150-500 metri di altitudine. La sua presenza si riscontra all'intero dei contesti più diversi: in associazione con altri alberi all' interno delle clausure ortive o delle canapaie; insieme con la vile anche come albero tutore della stessa, sia pure raramente; lungo i bordi dei seminativi. Non mancano oliveti specializzati in appezzamenti di varia estensione e collocazione, ma le fonti li segnalano come presenti in aree limitate. Eloquenti, in proposito, i dati di cui disponiamo per le campagne di Tivoli, una zona nella quale la produzione di olio aveva un rilievo economico non trascurabile sin dal Duecento. Agli inizi del secolo XV (1402), un registro di natura fiscale relativo ai possessi dei soli enti ecclesiastici cittadini elenca oltre 2500 piante ospitate in gran parte in appezzamenti di piccole dimensioni, l'85% dei quali non accoglieva più di 30 piante, mentre il 42% di questo 85% non superava i 10 alberi.
Sebbene la documentazione non consenta valutazioni quantitative sulle dimensioni assunte dall'olivicoltura nel Lazio, e possibile tuttavia appurare essa costituisse una realtà importante in diverse aree della regione.

Oltre al Tiburtino e alla già ricordata Sabina, non si possono tralasciare le coltivazioni del Lazio meridionale e del Viterbese. Per il Lazio meridionale e significativo che gli statuti di Alatri (databili, si ipotizza, al Trecento) dichiarino che gli abitanti della città si sostentavano in massima parte grazie all'olivicoltura: "pro maiori parte, homines et habilatores Alatri substentantur"; altra testimonianza indiretta della sua diffusione viene dalla frequenza con cui la pianta appare nei registri dei danni dati, ossia delle multe comminate per i danni recati dal bestiame alle coltivazioni. Quanto al Viterbese, e ancora alle fonti statutarie che si può fare ricorso per osservare come le autorità comunali si dimostrino particolarmente sensibili alla tutela degli oliveti, tanto nei riguardi dei furti quanto nei riguardi dei danni provocati dal bestiame.
Indubbiamente, alla fine del Medioevo, la presenza di un grosso centro di consumo come Roma costituì un forte stimolo allo sviluppo dell'olivicoltura nelle regioni limitrofe. Alcuni dati relativi ai consumi romani di olio nella seconda meta del Quattrocento sono eloquenti: ogni anno arrivavano in città dalla Sabina, dal Lazio meridionale e dal Viterbese tra i 2.500 hl del 1459 ai 3.400 del 1481 e quando la produzione regionale era insufficiente si ricorreva alle importazioni da Genova e dal Mezzogiorno (Campania, Puglia e Sicilia).

Meno dettagliate sono le informazioni di cui disponiamo riguardo ad altri aspetti dell'olivicoltura, come i sistemi di coltivazione. La scarsità di contratti di locazione, un tipo di documento che offre indicazioni puntuali e particolareggiate sulle tecniche colturali effettivamente praticate nelle campagne, lascia un vuoto solo in parte colmabile con altre fonti, in particolare con i trattati di agricoltura e con gli statuti. D'altra parte, la coltivazione dell'olivo richiedeva un limitato numero d'interventi, che, nel caso di oliveti specializzati di dimensioni consistenti, era di solito affidato a lavoratori salariati, tanto nel caso di operazioni particolarmente faticose (come la vangatura e la concimazione) quanto per quelle che richiedevano abilità specifiche, come la potatura.
I trattati degli agronomi medievali si rifanno in larga misura a quelli degli agronomi di età romana e per quanto concerne le tecniche dedicano una particolare attenzione ai sistemi di riproduzione della pianta. Questa poteva avvenire per talea oppure mediante polloni pedali o radicali; si ricorreva anche agli insiteti (innesti degli oleastri), un metodo che risulta frequentemente testimoniato nella documentazione relativa alle campagne pugliesi dei secoli XI-XIL. Particolarmente ricche di informazioni sono le fonti statutarie, dalle quali veniamo a sapere quali fossero le pratiche adottate per la lavorazione del terreno. Una zappatura o un'aratura annuale (così per esempio negli statuti di Alatri) erano fondamentali per aumentare la produttività della pianta; nelle campagne pugliesi, invece, gli oliveti erano sottoposti a più di una aratura. Dove possibile veniva praticata l'irrigazione e non mancano attestazioni del ricorso alla concimazione, come risulta dalla documentazione tardomedievale relativa a Tivoli.

La raccolta nel Lazio, terminava in genere entro Natale. I sistemi adottati differivano da zona a zona: in prevalenza si praticava la raccolta a mano - brucatura -, ma per la Sabina è attestato il ricorso alla bacchiatura (in uso anche in Puglia), mentre a Tivoli sembra si usasse raccogliere il frutto caduto a terra. Ad effettuare la raccolta era in larga misura manodopera salariata, che poteva essere reclutata localmente oppure tra forestieri, in quel ceto di lavoratori stagionali che si spostavano da una comunità all'altra in cerca di ingaggio.


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